La resistenza da parte dell’Italia ad adottare una legge di riordino delle concessioni demaniali marittime, nel rispetto del diritto euro-unitario e nel quadro della nostra Costituzione, esprime un ambiguo atteggiamento politico ed economico, in apparenza diretto alla salvaguardia di interessi nazionali (turismo, occupazione ecc.), ma in realtà fortemente condizionato dagli interessi di quei soggetti privati, sempre gli stessi, che stante la esiguità degli oneri concessori sono in grado di trarre profitti sproporzionati dallo sfruttamento di un bene comune.
L’essenza della natura giuridica del bene (litus maris) oggetto della concessione, il quale è “direttamente e inscindibilmente connesso al carattere pubblico della sua fruizione collettiva, cui è naturalmente destinato, rispetto alla quale l’esclusività che nasce dalla concessione costituisce eccezione”, impone che il suo utilizzo deve anche soddisfare pienamente la funzione sociale della proprietà sia pubblica che privata espressa dall’art. 42 Cost. Analogamente deve essere garantito il diritto del cittadino alla tutela del paesaggio e dell’ambiente (art. 9 Cost.) e la tutela stessa della salute (art. 32 Cost.).
In caso contrario, come purtroppo è accaduto, si lascia spazio a uno “spossessamento” di fatto del bene, in danno della comunità e a vantaggio esclusivo del concessionario “eterno”.
Per mantenere ad ogni costo tale vantaggio esclusivo (un vera e propria “rendita oligopolistica”) la categoria-lobby dei concessionari demaniali marittimi ha tentato da sempre di evitare l’applicazione delle regole della concorrenza, sostenendo che le strutture balneari nel nostro paese rappresentino non tanto un complesso di servizi turistici a pagamento erogati su un suolo pubblico ma piuttosto una indispensabile attività di valorizzazione turistica e custodia di un patrimonio naturale, attività diventata essa stessa un patrimonio di tradizioni ed esperienza che, in quanto tale, dovrebbe essere esclusa dalla disciplina europea in materia di concorrenza (cd. Bolkestein).
Un patrimonio che, godendo delle peculiarità geografiche nazionali (l’Italia è al secondo posto tra i paesi Ue per estensione costiera, con i suoi 8.000 km ca. di costa), vanterebbe la storica presenza degli impianti balneari, alcuni risalenti addirittura al XIX secolo (il primo “Lido” nasce a Viareggio nel 1827), nonché l’esperienza, la professionalità, le capacità tecniche e la conoscenza dei luoghi e delle esigenze dei clienti acquisite da coloro che li hanno gestiti, in gran parte per molti decenni senza soluzione di continuità.
Da qui ai continui rinvii delle gare ad evidenza pubblica il passo è breve. Nell’ultima, ennesima, proroga delle concessioni (legge 145/2018) l’argomento dei concessionari è riuscito ad entrare addirittura nella norma, in particolare nell’art. 1 comma 683, dove si precisa che lo scopo della estensione di 15 anni è anche quello “di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese”.
Non è la prima volta che si cerca di giustificare in tal modo le proroghe delle concessioni. Nella memoria portata dalla Regione Liguria di fronte alla Corte Costituzionale per difendere la legittimità di una legge di proroga di 30 anni, si sostiene “l’interesse (pubblico) alla conservazione della funzione di presidio sociale e territoriale che la presenza degli stabilimenti balneari adempie nei comuni costieri” . In questa concezione di “interesse pubblico” la stessa memoria fa emergere l’idea che “la protezione delle coste, in termini di pubblica sicurezza, debba essere demandata ai privati con un correlativo disimpegno da parte dell’amministrazione pubblica di riferimento.”
Quindi i concessionari, e non le pubbliche amministrazioni, sono i veri custodi delle spiagge, insostituibile presidio sociale e territoriale?
Una prospettiva allarmante e anche pericolosa, se si considera quanto accade già oggi, per esempio con i servizi di salvataggio. Secondo l’Associazione Marinai di Salvataggio della provincia di Rimini infatti: “[…] Il rischio concreto è che, anteponendo alla Sicurezza della vita in mare le logiche tese al profitto aziendale, somministrando contratti irregolari e derogando dalle disposizioni di sicurezza, nell’immediato futuro […] ciò comprometterebbe l’efficacia complessiva del Servizio e diminuirebbe le garanzie di Sicurezza, con un conseguente quanto inevitabile aumento di rischi ed incidenti sulla nostra costa e quando parliamo di Sicurezza della Balneazione parliamo della salvaguardia di vite umane”.
Una ragione in più, se fosse necessario, per rispettare le norme europee e la sempre più corposa giurisprudenza nazionale nell’affidamento delle concessioni sulle spiagge: il bene pubblico deve essere gestito non solo con criteri di economicità per l’amministrazione e i cittadini, e le continue proroghe in questo senso sono certamente deleterie, ma principalmente per il benessere collettivo, per la salute e la sicurezza dei cittadini e dell’ambiente, che lo spossessamento delle spiagge da parte dei privati rischia seriamente di mettere in pericolo.
Per questi motivi noi chiediamo una diminuzione complessiva delle spiagge in concessione rispetto a quelle libere, una riduzione della durata delle concessioni stesse, per ridurre gli “investimenti”, che spesso si traducono in cementificazione, e aprire ai giovani, finora esclusi a priori dalle opportunità di gestione, ma soprattutto di puntare ad una graduale rinaturalizzazione delle nostre coste, che sarebbe, questa sì, la vera attività di tutela e custodia del nostro preziosissimo e unico patrimonio ambientale e paesaggistico.